Metà di venti non è dieci.

Bilâl viveva in uno scantinato al 23bis in periferia a Milano. Glielo affittava un avvocato. Una brava persona. Una brava persona che gli chiedeva 200 euro al mese per stare nello scantinato. Bastardo.

«Se mi beccano... capisci... tu senza documenti... io rischio e non posso rischiare per nulla»

Bilâl non aveva capito. Cosa c'entrassero i 200 euro al mese con il fatto di essere clandestino poi... Ma vabbè. Fatto sta che lo scantinato non aveva neanche il cesso e per cagare doveva stendere un foglio di giornale a terra, accucciarsi e poi appallottolare il tutto e gettare nel bidone dell'immondizia davanti al condominio. 200 euro ogni mese. Bastardo, Ma vabbè. E poi c'erano stati momenti peggiori lì a Milano. Almeno ora aveva la luce per leggere il giornale prima di cagarci dentro. Quando dormiva per strada era molto peggio.

Aveva provato a passare la notte nei parchi, ma lì in periferia i parchi non sono fatti per la gente. Infatti, di solito non ci si ferma mai nessuno. Bilâl si sedeva lì e non pensava a nulla. Non aveva altro da fare. Stare seduto e non pensare. Osservava, quello sì. Osservava l'erba e l'effetto del vento sui rami, il laghetto, la ghiaia. All'inizio non aveva capito. Quando si erano accesi i lampioni, accanto a lui si era seduto un vecchio. Non proprio un vecchio, sui sessanta, ma portati male... Faceva caldo, quel caldo afoso che sembra uscire dal cemento nudo delle palazzine, quel caldo afoso che ti appiccica i vestiti al corpo come se fossero di cartapesta, che mozza il fiato e la voglia di vivere. Il vecchio aveva un Lacoste verde. Una bella Lacoste verde. Bilâl se ne sarebbe voluto comprare una. Magari con i primi soldi che avrebbe messo da parte.

«Quanto prendi?»

Sì, una Lacoste era proprio quello di cui aveva bisogno. Magari non verde. Sulla sua pelle stava meglio un colore che facesse contrasto. Bianca forse. Forse gialla.

«Scusi?»
«Quanto prendi? Quanti soldi vuoi?»
«Io soldi? Io soldi no... niente ho. Niente. Rien.»

Proprio non aveva capito. Poi aveva guardato bene: il vecchio si teneva la mano destra nelle mutande. Aveva anche la bocca un po' aperta come in quei manga che gli aveva fatto vedere la figlia dell'avvocato. Una brava ragazzina quella Marlene, ma quei fumetti osceni non erano proprio adatti alla sua età.

«Ora hai capito? Quanti soldi vuoi per il tuo bel culetto sporco?»

Bilâl si era alzato senza dir nulla e se n'era andato. A ripensarci gli avrebbe voluto spaccare la faccia a quel vecchio maiale. Ma meglio così. Niente guai, niente polizia. Niente polizia, niente guai.

Successivamente gli era capitato altre volte di incontrare vecchi così. Ma non solo vecchi. Anche uomini più giovani, talvolta anche ragazzi. La cosa strana è che non sembravano quelle che lì a Milano chiamano "checche" o "froci". Alcuni avevano anche la fede al dito. Mah... Fatto sta che aveva smesso di frequentare i parchetti e i giardini. Dormiva in un parcheggio sotterraneo. Quello della Coop. Due piani. Nessuno a rompere i coglioni dopo le 21.

Una sera si era avvicinato un pelato.

«Li vuoi 20 euro?»

Lui era steso come al solito sul suo cartone nell'angolo più lontano dall'entrata. Lavoro non ne aveva ancora e non mangiava da tre giorni, eccezion fatta per una mela che gli aveva lasciato una signora dal sorriso gentile.

«Sì che li voglio»
«Bene»

Prese la banconota da 20 fra le mani facendogliela vedere per bene e la strappò in due pezzi. Gliene porse una metà.

«Metà ora, l'altra dopo che me lo hai preso in bocca»
«Vaffanculo, pezzo di merda»
«Guarda è molto semplice, ce l'ho già duro, vedi? Ti inginocchi e mi succhi la cappella come se non ci fosse un domani...»

Avrebbe potuto ucciderlo. Un cazzotto dritto sul naso come gli aveva insegnato il padre e poi giù botte fino a quando non vomitava sangue e smetteva di respirare.

«... guarda che è un po' che ti osservo. Io vengo qui tre volte alla settimana a fare la spesa. Tu dormi qua, non hai una casa. Probabilmente non hai neanche il permesso... Basta chiamare la polizia per saperlo.»
«La polizia. No, la polizia, no. Non voglio problemi»
«Ecco, allora... Metà ora e metà dopo. Ringrazia che ti do anche 20 euro che ti ci compri qualcosa da mangiare. E vedi di non sporcarmi.»

Alla fine quel buco di merda che si era trovato al 23bis non era poi così male. Se si faceva una fidanzata grazie alla sua Lacoste nuova almeno la poteva portare lì. Bastava solo arredare un pochino. Il letto c'era... Una lampada, una piccola scrivania, magari anche un divano Ikea. Certo 200 euro... Bastardo. Per pagare l'affitto doveva andare al parcheggio almeno dieci volte. Se dava il culo no. Per il culo chiedeva almeno il doppio.

Emme

Emme scopava come guidava, o viceversa ad essere precisi. Soprattutto la notte. Infilava le marce come se azionasse grossi congegni in pietra e usava sempre il freno-motore per rallentare, mai il freno. La piccola macchina sportiva sbuffava e gemeva come se dovesse lasciarci le penne da un momento all'altro, ma poi Emme le dava tregua e lei si rilassava, si allungava e si assopiva fluida lungo il rettilineo. Non era lui, era la periferia. Tutti lì guidavano così, come pazzi. Forse per non vedere, forse perché in periferia non c'è bisogno di orologi. Chi non si adatta viene messo alla gogna. Clacson e imprechi. Pugni madidi alzati al cielo e salivazione a mille. In periferia esiste solo la società dell'hybris. Come a letto.

E a Emme non piaceva essere al centro dell'attenzione. Tanto meno quella sera. Erano le 3 del mattino e guidava lungo la zona industriale dove non c'erano semafori. Solo perché non aveva niente di meglio da fare. Dalle donne aveva imparato a stare lontano. Non era periodo e girava indubbiamente male. Di alcol non ne aveva neanche una goccia in corpo. Costava troppo e bisognava decidere accuratamente quando e quanto bere. O quello o la benzina. E senza benzina in periferia non si va da nessuna parte, praticamente non esisti. La periferia è una città fatte per le macchine. Si capisce anche solo guardando le rotonde. Ovviamente quelle erano arrivate da pochi anni, in ritardo, esattamente come l'happy hour, lo yoga, e gli occhiali grossi e quadrati. Improvvisamente era stato tutto un costruirle: piccole, grandi, inutili, ovali e persino quadrate. 

I primi giorni era stato il caos: api a pieno carico che si ribaltavano, chi si fermava all'interno per far subentrare le macchine a destra, chi intimorito non osava, al contrario, immettersi nel magnifico flusso centrifugo. Ci fu una signora che addirittura, per la frustrazione, spense il motore, tirò il freno a mano e andò a far la spesa a piedi. Finì anche sul giornale, perché bloccò il traffico per quasi 20 minuti, e il figlio si vergognò molto. Ma in periferia ci si abitua a tutto. Si abbaia qualche giorno, si sfoderano i già citati pugni madidi alzati al cielo e la salivazione a mille, si impreca contro fantomatici «politici» senza nome e volto, perché nessuno sa mai chi decide se e dove fare una rotonda... Esiste forse un assessorato alla rotonda? E quali sono le motivazioni per cui si decide che «sì, è giunto il momento di trasformare questo incrocio in una giostra di suv e utilitarie»? Fatto sta che dopo qualche settimana ci si abituò alle maledette rotonde e i madidi pugni vennero riposti o sfoderati per qualche altra contingenza. Venne allora affrontata la necessità di distinguere le rotonde l'una dall'altra. Probabilmente l'assessore alle rotonde aveva notato che «sì, il traffico scorre più velocemente» e che «fortunatamente dopo una breve fase iniziale in cui gli utenti si sono abituati alle recenti modifiche alla viabilità, gli incidenti sono rientrati nella media», ma che «purtroppo si registra ancora una certa difficoltà a memorizzare i nuovi percorsi, probabilmente anche a causa del ritardo nell'aggiornamento dei navigatori satellitari delle marche più importanti». Per fortuna, assicuravano le varie notule dei vari comuni, sollecitazioni a tali produttori di navigatori satellitari erano già state inviate dagli appositi uffici. Nonostante le tempestive segnalazioni, però, ci fu una signora che guidò per due giorni di fila non riuscendo a ritrovare la strada di casa. Si fermò quando esaurì la benzina nel serbatoio, scrisse il giornale, che con una punta di sarcasmo ci tenne a sottolineare che no, non si trattava della stessa signora che per la frustrazione aveva deciso di parcheggiare la propria utilitaria in mezzo ad una di queste mirabili opere di viabilità. Fatto sta che per ovviare al problema dell'indistinguibilità delle rotonde si cominciò una specie di gara all'ornamento delle suddette: alberi, statue, semplici pietre, ghiaia, erba, fino ad arrivare a torrefazioni di botti di vino (dove se ne produceva), piastrelle di ceramica colorata (ma sempre e solo dove se ne produceva), eccetera eccetera.

Ed erano tutte queste bizzarrie che Emme osservava quella sera, finché non arrivò alla rotonda-casa... Già, perché non sempre era stato facile costruire le rotonde. Si erano dovuti abbattere vecchi edifici, espropriare fette di giardini, cementificare fossati. C'era dello scontento in giro e la rotonda-casa era la prova che l'amministrazione se ne era accorta. Espropriare un'intera casa a due piani abitata da due famiglie per costruire una rotonda sarebbe stato troppo. Madidi pugni si sarebbe sollevati sempre più numerosi fino a formare comitati e associazioni contro le rotonde. Così decisero di lasciare lì quella palazzina e costruirci attorno. Fatto sta che Emme quella sera era arrivato a quella rotonda. Niente alcol in corpo e nessuna donna ad aspettarlo a casa. Una Fiat familiare, probabilmente una Palio 1400, si era andata a conficcare nell'angolo della staccionata della rotonda-casa. Gli airbag esplosi e il liquido di raffreddamento del condizionatore sparso per terra. Fuori quattro ragazzi, ubriachissimi, che non riuscivano a stare in piedi; uno col volto coperto di sangue. Da dentro il giardino due uomini in pigiama, un vecchio e un uomo sui quaranta. Il più giovane scattava foto a manetta con tanto di flash ai ragazzi, alla macchina ed alla staccionata rotta. Emme accostò la macchina e scese. L'uomo sentì il bisogno di spiegare che faceva le foto perché era già la terza volta quel mese che gli finivano nel giardino con la macchina e che doveva riparare la staccionata, e che stava raccogliendo materiale per fare un esposto al comune... 

«Ma ha chiamato un'ambulanza?»
«Macché ambulanza e ambulanza... non lo vedi che stanno benissimo, sono solo ubriachi»

I ragazzi storditi dall'alcol, dall'incidente e dal flash non avevano ancora spiccicato parola. Guardavano nel vuoto e sbavavano, continuando a barcollare sul posto come dondolati dal vento.

«Ragazzi volete che chiami un'ambulanza?»
«No... polizia... Niente polizia...»
«Allora converrà che si provi a spostare la macchina che blocca il traffico. Però mi dovete dare una mano perché da solo non ce la faccio e quei due lì non mi pare siano intenzionati a darvi una mano...»
«Sì»
«Ok, allora uno per portiera e uno da davanti. Anche se il semi-asse anteriore sembra storto dovremmo farcela»
«Ok»

Nessuno si mosse. Come mosche sotto il sole continuavano a guardare Emme e dondolare.

«Allora?»

Ancora nessuna reazione. Il quarantenne in pigiama continuava a fotografarli. 

«Dio cane...»

Emme si girò e risalì in macchina. Domani, pensò accendendo il motore, mi trovo una donna.

Vladimiro Tanzi

Vladimiro Tanzi si guardava le punte delle scarpe da tennis da 45 minuti e 36 secondi esatti. Sotto 20,3 metri di aria milanese inquinata e poi ossido di calcio, ossido di silicio, ossido di alluminio, ossido di ferro, ossido di magnesio e solfati, mischiati in parti variabili. “Cemento”, direbbero i più; “cemento Portland”, si spingerebbero, forse, i professionisti dell’edilizia; ma Vladimiro Tanzi sin da piccolo era uno preciso.

Prendendo come buona la convenzione che pone la costante gravitazionale al valore di 9,80665 m/s², e non considerando la distanza da poli ed equatore, i 72 chilogrammi (vestiti e scarpe non compresi) costituenti il nostro idraulico, avrebbero impattato con il terreno in un arco di tempo sufficiente a ricordarsi di non aver chiuso la finestra in cucina.

Al pensiero Vladimiro desistette.

Tutte le mattine da 12 anni e 185 giorni ripeteva lo stesso rituale: si alzava dal letto, si pesava, controllava velocità e direzione del vento e poi saliva sul tetto ad ammazzarsi. Talvolta nei torridi mesi milanesi arrivava addirittura a spogliarsi completamente, felice di poter calcolare esattamente quanto ci avrebbe messo per raggiungere l’amata fine. Ogni volta, però, si fermava.

E se avessi scordato qualcosa? Ho finito quel puzzle da 1.400 pezzi sulla stazione di Saint-Lazare di Monet? Ho ritirato le analisi del sangue? Cazzo, ieri sera ho lasciato il cd di Mertens in macchina sul parabrezza, se non lo tolgo il sole lo renderà illeggibile.

Il punto è che Vladimiro Tanzi non riusciva, è vero, a vedere neanche una ragione per continuare a vivere, ma non riusciva a vederne neppure una per morire. Era un uomo terribilmente medio, né pregi né difetti evidenti, né disgrazie né felicità rilevanti. Aveva sposato una donna per cui non provava nessun tipo di sentimento, ma che era l’unica che era riuscito a tenersi al fianco per più di qualche mese. Aveva dei figli che non capiva. Il lavoro non lo amava, né lo odiava. Lo faceva, punto e basta. I soldi che si ritrovava in mano non gli davano alcuna sensazione, nessun fremito, quindi li lasciava gestire interamente alla moglie. Non aveva hobby, né passioni: il calcio lo annoiava, il cibo era solo una necessità e il cinema non lo interessava.

Non aveva visto nessun periodo storico rilevante: la seconda guerra mondiale l’aveva fatta il nonno, il ‘68 il padre, il ‘77 lo aveva sfiorato quando ancora si nutriva di liofilizzati e plasmon; quando era crollato il muro di Berlino non sapeva cosa pensare e per non fare la figura del fesso non disse niente e quando venne giù il World Trade Center fu praticamente l’unico a scoprirlo dopo qualche giorno… D’altra parte di televisione, radio e giornali si era stufato da subito e negli anni aveva imparato ad evitarne anche solo la vicinanza.

Osservava un’opera d’arte come si guarda ai sampietrini per strada; leggeva i romanzi da ombrellone come le pagine gialle, e gli altri, non capitandogli mai sott’occhio non li conosceva proprio.

Cosa vuoi fare, Vladimiro, da grande? A questa domanda, in terza media, era seguito il mutismo più assoluto.

Ti piace quando facciamo l’amore così? A 18 anni la sua prima ragazza non l’aveva presa molto bene quando lui non aveva risposto né sì né no.

Una volta aveva anche provato ad impiccarsi. C’erano degli operai a fare non so che lavori sul tetto quella mattina. Vladimiro aveva preso una cintura in pelle nera, vecchio regalo del padre, l’aveva legata ad una tubatura che passava sotto il soffito, e, infilata la testa nell’anello che si era venuto a creare, aveva spinto la sedia via da sotto i suoi piedi. Restò un minuto ciondoloni appeso come un maiale in un macello. Poi… Poi, niente. Continuava ad essere vivo. Neanche un dolorino, un lieve senso di soffocamento. Nulla. Lo trovò la moglie due ore dopo. Si era alzata per fare il caffè e portare i figli a scuola come ogni mattina e lo aveva trovato lì, appeso al soffitto, ciondoloni, gli occhi amareggiati, stanchi. Né un urlo, né un gesto di spavento. “Vlad”, gli aveva detto, “smetti di fare lo scemo e scendi da lì… Perché poi non sei ancora al lavoro?”. E se ne era andata in cucina a fare il caffè.

Ore negate

Erano due anni che non succedeva. Due anni che riusciva ad addormentarsi senza problemi, con il sorriso sulle labbra. Poi tutto era ricominciato da capo. Era come in quelle lunghe sequenze de ‘Il cielo sopra Berlino’ in cui gli angeli ascoltano i pensieri delle persone, solo che i pensieri erano i suoi. Non è che soffrisse di vera e propria insonnia, ma ci metteva ore per addormentarsi. 


Gualtiero Marini ogni notte si sdraiava sul letto, leggeva un capitolo del libro in cima alla pila sul comodino, si metteva una mascherina da notte sugli occhi e poi aspettava. Aspettava che quella voce dentro la sua testa cessasse di parlare.

“Stai zitto, cazzo… Mi sono anche messo una ridicola mascherina da notte sugli occhi”

E invece no. A volte dopo qualche ora la voce si faceva più sommessa, più lenta, e allora riusciva ad addormentarsi. Ma di solito era ormai giorno. Se non aveva niente da fare se la dormiva fino ad ora di pranzo, sennò un bel tazzone di caffè di quelli da rivoltare lo stomaco, la faccia sotto l’acqua e via, a far finta di essere sani. 

Quando tutto ricominciò non si rese subito conto di averne sempre sofferto. Fu quell’ennesima notte, con il termosifone che gocciolava chissà per quale dannato motivo, che gli rivenne in mente.

“Come prima, è tornato tutto come prima”

E con i disturbi del sonno fece la sua ricomparsa anche la bolla. Non lo abbandonava mai la bolla: per strada, all’università, a cena. Come un tiepido micro-mondo di suoni ovattati e di gesti lenti la bolla lo proteggeva ovunque, ma dentro con lui rimaneva anche la voce, inesorabile bastarda…

“Ira, legali corna”, “roca ella argini”, “ragna e li corali”, etc.

Come un mantra assurdo, una sequela di frasi sempre diverse e sempre poco intellegibili lo tormentava in un climax di occhiaia e tremori delle mani. Era sul punto di crollare, di nuovo, esattamente come due anni prima. All’epoca, però, quando credeva che tutto stesse per implodere, venne investito da una macchina che non aveva neanche sentito inchiodare. Magro e pallido si ricordava solo delle striscie sulla strada, violentemente risucchiate via, chissà poi da cosa. Al risveglio due medici in camice verde e un’infermiera gli stavano parlando.

“…ltier. .. sen..”
“Gual…..”
“Gualtiero, mi sente?”

Sentiva quei tre estranei che lo chiamavano per nome, ma come in differita, lontane e rispettose del suo mal di testa.

“Deve essere la bolla, magari si è ristretta ancor di più”
“Cosa? Signor Marini, non capiamo. Cosa va farneticando?”
“Cosa vado farneticando io? E allora quello che non fa altro che ripetermi roca ella argini li corali e ragna?”
“Infermiera, forse è ancora sotto l’effetto dell’anestesia: 5 mg di morfina che si sta agitando troppo… Signor Marini, Gualtiero, è stato investito da una macchina, se lo ricorda?”
“Credo di sì… qualcosa del genere…”
“Bene l’abbiamo rimessa insieme. Non si può muovere, perché sennò si scucirebbero i punti… Vede lei era diviso in due metà precise, proprio come in quel libro di Calvino. Ma ora è fuori pericolo. Riposi, ne avrà ancora per qualche giorno e poi la lasciamo andare…”

Non riuscì neanche a sentire la fine del discorso del dottore che già si era addormentato. Per due anni non aveva più avuto problemi: né voci, né bolle.

Ma ora… Ora era tutto come prima di quell’incidente. Si fermò sulle strisce pedonali, gli occhi quasi chiusi, il fiato mozzo, aspettando che una macchina non frenasse in tempo. Aspettò invano: dopo la prima che si era fermata e impaziente l’aveva aggirato, tutte le altre fecero lo stesso, rallentate dalla coda inevitabilmente creatasi. 

Gualtiero Marini fu portato in un ospedale psichiatrico appena fuori Milano dove visse per pochi anni ancora, eroso internamente da un tumore allo stomaco. Sin dal secondo giorno di ricovero andava ripetendo stancamente a tutti di non essere pazzo e che semplicemente gli erano saltati i punti dell’incidente stradale che aveva avuto.

“Voi non mi credete, non potete vedere coi vostri occhi… Io son dentro questa maledetta bolla e voi non potete vedere che son solo metà, che ho perso l’altra e che non posso stare qua dentro, chiuso fra quattro mura di sertralina cloridato…”

Ritengo che la memoria (l’insieme dei ricordi) di una persona sia inevitabilmente un anagramma della persona stessa: frammenti di tempo e sensazioni riuniti in file sempre diverse e sempre confuse.
Ritengo bukowskianamente che i sentimenti risiedano nello stomaco, se non proprio nelle budella: il piacere, quello intrecciato con la carne, in lotta dialogica con quello che Bourdieu chiama distacco.
Ritengo, infine, che esista una qualche completezza amorosa; non può essere cercata, nè trovata. Semplicemente accade.

Per 30 chili di gorgonzola

Braglia si ricordava benissimo di quel palazzo. Sei piani, un numero civico da condividere con l’edificio accanto. Tremila e centoventiquattro tonnellate di cemento, di quello brutto, di quello duro. Lì aveva passato 15 anni della sua vita. Al suo fianco la donna che si era abituato ad amare, sempre per 15 lunghi anni, e il figlioletto appassionato di sci, nuoto e videogame. Poi tutto accadde, in fretta: la seconda grande crisi degli anni duemila, la perdita del lavoro e la separazione dalla moglie.


Braglia faceva il camionista. Tremila euro al mese al lordo delle tasse, ogni mese per dodici mesi, più tredicesima a dicembre. Questo per 15 anni. Quindici fottutissimi anni. Fabbrica-grandi distributori sul territorio nazionale, grandi distributori sul territorio nazionale-fabbrica. Effettivamente era più un padroncino, ma senza furgone. Dalle otto alle quattordici ore al giorno di autostrada. Le emorroidi ormai erano diventate piacevoli compagne di viaggio.

La prima ad andarsene fu proprio questa sicurezza: le emorroidi. Una lettera senza troppi convenevoli né spiegazioni. Licenziato? E perché mai?


“Vede, Braglia, a causa di questa crisi mi vedo costretto a chiudere questa mia fabbrichetta e… sa, niente fabbrichetta, niente consegne ai clienti.”
“Ma, signore, non ha mai venduto come in questo periodo!! Non ho mai fatto così tante consegne di preservativi come in questi mesi. E poi con questi strascichi di crisi la gente ormai fa attenzione a non far figli.”
“Guardi, Braglia, sarò sincero con lei. Lavoro ce n’è, ma profitto poco. Troppo poco. Ho deciso di spostare lafabbrichetta fuori dal’Italia, dove la forza-lavoro costa di meno.”
“Ma… ma…”
“Su, su. Lei mi capisce. Anche lei ha un figlio”

“Ma… ma… dove la sposta questa cazzo di fabbrichetta? Voglio dire, avrà pur sempre bisogno di consegnare la merce, no?”

“Lei Braglia mi pensa preistorico! Voi impiegati non avete proprio fantasia manageriale. Vede, oggi si fa tutto via internet. I distributori, gli intermediari fra noi e i clienti, sono morti. Defunti. Un click e hai il prodotto a casa, via posta.”
“D-d-dove la apre, quindi?”
“Pasqua, l’isola di Pasqua! Lì non hanno ancora inventato i sindacati.”

Quella fu la prima volta che vide un commissariato da dentro. Un bel destro dritto nel naso e poi giù con i calci secchi nello sterno. Quella volta lo fecero tornare a casa, un bel appuntamento col giudice e una diffida ad avvicinarsi all’ex-padrone. Poi fu il turno della moglie.

“Puoi smettere di fare quel fastidioso rumore con la bocca quando mastichi? Lo odio. E poi sta zitto che comincia la pubblicità.”

Non resse. La casa ed il figlio rimasero con lei; lui d’altronde era un violento e per di più disoccupato.


Braglia, 43 anni, né una casa, né un lavoro, né una famiglia; e tutto all’improvviso. Nei giorni successivi tutte le mattine si alzava e cercava lavoro, inutilmente. C’era la crisi, ma… “sia ottimista”. La notte passava davanti a quel palazzo. Sei piani e il civico, 23bis, stampato in nero su una piastrellina sbiadita sull’angolo destro del portone. Lo guardava e lo odiava, ma ora da quella angusta cella un po’ gli mancava.

Il dramma successe tre mesi dopo la separazione. Gli ultimi risparmi andati; di un lavoro neanche l’ombra e il co-inquilino della stanzetta che era stato costretto a prendere in affitto (una doppia di 15 metri quadrati a 250 euro al mese) gli rubava di continuo i calzini. Quella sera doveva portare il figlio al luna park della sagra della cozza, ma non poteva pagargli le corse sulle giostre. Inventò una scusa e ci andò da solo.

Aspettò la chiusura nascosto dentro un bagno chimico, si assicurò che non ci fosse più nessuno. Poi con una pietra spaccò il lucchetto di un padiglione e rubò 30 chili di gorgonzola dolce.

I poliziotti lo trovarono nella camera che aveva affittato. Quindici chili se li era fatti fuori così, senza pane né tanto meno affettati. Gli altri quindici li stava dividendo ed impacchettando in confezioni da 500 grammi, probabilmente per rivenderle, si legge nel verbale. Intanto cantava a squarciagola una canzone:

"Và... cuore mio da fiore a fior
con dolcezza e con amor

vai tu per me ...
Và... che la mia felicità
vive sol di realtà vicino a te...

Voglio vivere così
col sole in fronte
e felice canto
beatamente...
Voglio vivere e goder
l'aria del monte
perché questo incanto
non costa niente "

Che ci crediate o no questa storia è ispirata ad un fatto realmente accaduto; e, che ci crediate o no, non è così strano perdere la testa in questo mondo orribile. Io comunque fra i pazzi e gli avidi preferisco di gran lunga i primi.

Il prossimo potresti essere tu, ma mi raccomando "sii ottimista!"

Marlene

Marlene sognava cieli bianchi postfordisti e angeli elettrici.


Era fermamente convinta che i lampi fossero solo le radici di giganteschi fiori. Fiori di una tale bellezza da risultare disarmante, tanto da non poter resistere a se stessa per più di una frazione di secondo. Se riuscissi ad andare più in alto delle nuvole - pensava spesso guardando la tempesta in fondo a Milano - forse potrei vederli anche solo per un attimo. Poi sarei felice.

Di questa cosa ne era ormai certa e si era anche fatta tutta una serie di idee al riguardo. Il tuono, si diceva, è ovviamente il rumore di una cosa bella che cessa di esistere: più bella è, più fa rumore, e così deve essere per tutte le cose.

Da quel giorno cominciò ad annotarsi e a classificare su un quadernetto qualsiasi suono passasse nei pressi delle sue orecchie di bambina. Era un po’ confusa, per dir la verità, dai pop-corn, che trovava di un irresistibile candore, ma la cui nascita veniva preceduta da un piccolo scoppio, mentre ciò sarebbe dovuto succedere solo dopo averli messi in bocca. Si segnò sul quadernetto di indagare più approfonditamente in seguito.

Marlene era la figlia dell’avvocato. Sua madre li aveva abbandonati tutti e due senza lasciare neanche un bigliettino in una ventosa giornata di maggio. Aveva tre anni. Quando, una volta cresciuta, chiedeva al padre perché lei non avesse una mamma, lui rispondeva semplicemente che se l’era portata via il vento. Doveva essere una mammina proprio magra, pensava.

L’avvocato non era più stato lo stesso uomo di prima. Lo avevano notato tutti nel condominio. A quelli del 23 bis non sfuggiva mai niente. Tutti si facevano irrimediabilmente i cazzi degli altri.

Non apre quasi mai le tapparelle e ha lasciato marcire tutti i fiori che aveva in terrazza - bisbigliava una voce dal fondo delle scale.

Shhh, parla più piano, stupida - le rispondeva un’eco che era quasi un sospiro - comunque io l’ho visto con i miei occhi andare al lavoro in pigiama e pantofole; sembra quasi che abbia perso interesse a vivere.

Ma perché in questa storia non ci sono virgolette nei discorsi diretti? - si chiedeva indispettita una terza voce.

Erano comunque passati cinque anni da allora. L’avvocato di tanto in tanto era ancora artefice di qualche stranezza, ma tutto sommato conduceva una vita apparentemente normale. Marlene andava in terza elementare e per andare a scuola in centro doveva cambiare due tram ogni mattina. Lo stridio dei freni del tram è il rumore della morte di una cosa bella: la velocità fluttuante che attraversa indifferente il traffico.

Era abituata a stare sola. All’inizio il padre chiamava una baby sitter, poi cominciò a chiedere alla moglie dell’idraulico del secondo piano se ogni tanto andava a dare un occhio alla bimba, ed infine capì che Marlene era già completamente indipendente e non si preoccupò più di affidarne le cure a qualcuno al ritorno da scuola.


Bucato

Misero a stendere le loro coscienze fuori, sul lato nord della casa, quello dove non batte mai il sole. Si ghiacciarono, lasciandogli così qualche ora di sonno tranquillo.

Ormai era diventato un rituale ogni qual volta succedeva qualcosa di orribile: un terremoto, Rosarno, un tracollo dell’economia. Sapevano di avere delle colpe. Lo sentivano tutti.

Era pratica talmente diffusa che già da anni ormai, giornali e programmi televisivi dispensavano consigli e opinioni: l’ora più adatta, come supplire alla mancanza di un lato buio della casa, cosa fare d’estate, etc.

Il 23bis era un edificio particolarmente fortunato. Con un lato-nord particolarmente ventoso e buio, i condomini potevano appendere fuori le proprie coscienze tutti i giorni dell’anno, persino nelle torride estati milanesi. Chi prima, chi dopo, tutti avevano ormai preso l’abitudine di stenderle una volta tornati a casa. Tutti i giorni. Eh già, perché una cosa va detta: far ghiacciare la propria coscienza è una specie di droga; più lo fai e più ti fa sentire meglio, e ne vuoi sempre di più, arrivando a ricorrerne anche per colpe insignificanti. Una piccola bugia, un eccesso di pigrizia, uno sguardo lascivo con la collega di lavoro, ed ecco che il lato nord del 23bis si ricopriva letteralmente di piagnucolanti coscienze ghiacciate.

“Non abbiamo ancora scoperto la precisa composizione chimica di una coscienza, ma possiamo dire con certezza che, a contatto con l’aria, comincia ad irrigidirsi già su temperature di 13-14° C.” (Panorama, 14/05/12)

Si potrebbe affermare, quindi, che al 23bis fossero tutti dipendenti, assuefatti. L’avvocato fu il primo fra di loro. Cominciò a farlo quando, cinque anni prima, la moglie un giorno uscì di casa e non si fece più rivedere. Era anoressica e “la colpa - si diceva l’avvocato - era tutta mia”. Quando si conobbero lui era una giovane promessa del foro milanese, figlio di uno dei più noti divorzisti di Milano, lei una web designer dalle qualità mediocri.

Finirono in semi-rovina nel giro di pochi mesi, giusto quando lei era incinta della loro prima figlia, Marlene. Il padre di lui, il divorzista con i contro-coglioni, in galera per una frode al fisco di dimensioni epocali, il cognome infangato per sempre. Si ritrovarono a vivere in periferia dove gli affitti erano meno cari, in un merdoso condominio scordato da dio e probabilmente anche da Lucifero. Fu dopo la nascita di Marlene che cominciarono i problemi di peso. Lei non riusciva a riprendere la linea velocemente come avrebbe voluto e lui, invece di sostenerla, non faceva altro che stuzzicarla.

“Dovresti andare un po’ in palestra, sembri una balena”

“E Marlene chi la tiene? Se tu mi assicurassi che tornato dal lavoro…”

“No, non posso. Il lunedì sera ho il circolo, il martedì…”

“Ok, ok. Piantala, questa nenia l’ho già sentita troppe volte. Lo so che sei pieno di impegni e che non ci sei mai a casa. Lo sai da quant’è che non mi scopi? Lo sai?”

Insomma, nel giro di pochi mesi dalla disperazione cominciò a non mangiare più. Quando, una ventosa giornata di maggio, sparì, pesava solo 39 chili e non aveva più granché voglia di vivere. Aveva scoperto che il marito, l’avvocato, aveva una relazione con un’altra condomina, una zitella anonima con un terribile difetto di pronuncia e uno yorkshire dall’abbaiare fastidioso. Non resse. Uscì di casa senza neanche lasciare un bigliettino e abbandonò figlia e marito.

Insomma, l’avvocato, da allora, per sopravvivere ai sensi di colpa, ogni giorno stendeva un paio d’ore la propria coscienza.

Fu il primo caso in Italia. Il primo di una lunga serie di cedimenti nervosi. L’ambulanza la chiamò la moglie dell’idraulico del secondo piano. La piccola Marlene, che aveva ormai otto anni, era corsa da lei spaventata ed in lacrime. Il padre, disse la piccola, non aveva fatto alcun particolare rumore nell’impazzire, ma ne aveva fatto molto, invece, nello spaccare con una mazza da baseball tutta la mobilia, compreso il televisore.

“Se lasciata troppo di frequente a ghiacciare, la coscienza, che non è completamente elastica, può danneggiarsi e lacerarsi. […] Negli ultimi mesi si sono registrati vari casi di coscienze bucate: crisi di nervi, permalosità, comportamenti di natura ossessiva ed in alcuni casi anche schizofrenia, sono le conseguenze che per ora abbiamo constatato in coloro che si sono fatti ricoverare.” (Panorama, 28/09/12)

All’inizio è un foro minuscolo. Un buchetto talmente piccolo che è impossibile da vedere a occhio nudo. Un buchetto nella coscienza. Qualcosa si incrina, non funziona più ed è allora che ci si comincia ad odiare. Guardandosi allo specchio semplicemente non ci si sopporta più e i nervi cedono. Il suicidio no, troppo vigliacchi anche per quello; allora ci si sfoga sui mobili, facendoli a pezzi uno per uno, quegli stessi mobili che per anni hai accumulato e predisposto con ordine nella tua casa. Scandivano il tuo successo, la scia di morti che inevitabilmente ti sei lasciato alle spalle. Ed è proprio per questo che cominci proprio da quelli.

Le tue colpe non le puoi portare in lavanderia.